giovedì 20 ottobre 2011

Quando l'Italia aiuta a capire la Libia

Da giorni è in atto, nei  media italiani, un'intensa campagna di stampa di denigrazione della rivoluzione libica, la cui manifestazione più evidente è l'intera pagina che il maggiore quotidiano italiano ha dedicato alla descrizione di "incendi, terrore e caccia all'uomo" che imperverserebbero in quel paese irrimediabilmente devastato dalla violenza (Corriere della Sera 16 ottobre 2011, p. 19).
Con qualche mese di ritardo, il giornalista scopre che gli abitanti di Tawergha -che avevano partecipato alle atrocità dell'assalto a Misurata e per mesi avevano ospitato e sostenuto le truppe che inondavano di razzi la sua popolazione civile- quando la cittadina venne conquistata proprio da quei misuratini cui avevano provocato tanti lutti e sofferenze preferirono scappare a Tripoli e altrove (dove peraltro molti ingrossarono le file delle folle prezzolate inneggianti a comando al dittatore: rent-a-crowd veniva definito questo sistema). Che essi non abbiano molta voglia di farsi rivedere da queste parti e che le brigate della città martire se la prendano con le case ormai vuote di questi collaborazionisti può sorprendere solo le anime belle.

Va però detto che se i rivoluzionari (il Corriere continua a chiamarli "ribelli") ce l'hanno con Tawergha e i suoi abitanti, questo è legato proprio al ruolo di aguzzini e complici di aguzzini che la maggior parte di questi ultimi svolse. Anche in diverse altre città della Libia la liberazione fu resa difficile dal sostegno della popolazione ai gheddafiani, ma quasi dovunque si ebbero anche gruppi di abitanti che sostenevano la rivoluzione (Freedom Fighters) e che si battevano dall'interno per aiutare i rivoluzionari nella loro opera. Perfino a Zliten, Sirte e Beni Walid. Invece Tawergha è una delle pochissime località in cui qualche sostegno anche solo "di bandiera" non si è proprio mai visto. Attribuire "colpe collettive" non è bello né consigliabile, ma con queste premesse è comprensibile -benché ovviamente non condivisibile- che sia stata fatta la generalizzazione "tutti gli abitanti di Tawergha sono -potenzialmente- miliziani di Gheddafi" (soprattutto, ripeto, da parte di una popolazione che per mesi ha veramente visto i sorci verdi e ovviamente non vede l'ora di prendersi una rivincita). Detto questo, il fatto che la maggior parte degli abitanti di Tawergha abbia la pelle nera può sì aver determinato un'altra pericolosa equazione ("tutti i neri sono potenzialmente sospetti"), ma non è, come i media nostrani cercano di far credere, all'origine di questo rude trattamento. Se accenti razzisti emergono qua e là oggi (ma le parole di adolescenti brufolosi resi spavaldi dall'avere in mano un kalashnikov non rispecchiano, per fortuna, il pensiero generale) si tratta di una conseguenza dell'atteggiamento degli abitanti di Tawergha (neri, ma potevano anche essere bianchi, rossi, gialli o blu), e non di una causa della persecuzione di questi ultimi. Il falso argomento di un preteso razzismo radicato nei rivoluzionari è stato fin dall'inizio uno dei cavalli di battaglia della propaganda di Gheddafi, che ben conoscendo la sensibilità in proposito dell'opinione pubblica occidentale e soprattutto americana si è servita in modo spregiudicato di diverse personalità statunitensi che hanno rilanciato e amplificato l'allarme "caccia al negro", dal reverendo Jesse Jackson alla deputata Cynthia McKinney. Da notare che, anche se i mezzi di comunicazione lo hanno ignorato, per tutto il tempo in cui Misurata fu assediata e bombardata la popolazione, benché in difficoltà per il proprio stesso sostentamento, si prodigò per assistere alcune migliaia di profughi, in gran parte "di colore", che erano bloccati in città e riuscirono a imbarcarsi e rientrare in patria solo quando l'assedio venne allentato e le navi cominciarono ad approdare. Segno che sapevano benissimo distinguere tra neri incolpevoli e neri corresponsabili dei crimini di Ghedafi.

Ovviamente, gli episodi di trattamento persecutorio che Amnesty International ha rilevato e documentato in diversi casi sono un abuso che non va tollerato e mi risulta che il CNT stia facendo il possibile per rimettere il paese sui binari della normalità. Ma non va dimenticato che, anche se sembra che finalmente i combattimenti stiano volgendo al termine, ancora mentre scrivo queste note in Libia è in corso una guerra. E in una guerra tutti i diritti vengono calpestati.

Si è mai visto in una guerra far prigionieri gli avversari con un mandato del giudice, sottoporli a un giudizio entro 24 ore, perquisire le loro persone e le loro case dietro madato dell'autorità giudiziaria e garantir loro un equo processo prima della fine della guerra? Anche se umanamente questo è condannabile, è evidente che in tempo di guerra le cose funzionano in modo diverso che in tempo di pace ed è anche per questo che le guerre sono esecrabili, non solo per lo scempio di vite umane e le sofferenze delle vittime, ma anche per l'enorme spazio lasciato all'arbitrio di chi ha in mano le armi.

In Italia, in questi giorni, è bastata una giornata di tumulti in occasione di una manifestazione a Roma per vedere avanzare proposte di una nuova "legge Reale", insieme al divieto, per sei mesi, di tutte le manifestazioni a Roma. La "legge Reale", lo ricordiamo, era un provvedimento d'urgenza, adottato negli "anni di piombo", che sostanzialmente aboliva, o indeboliva sensibilmente, i diritti degli accusati e degli arrestati e forniva alle forze dell'ordine poteri e discrezionalità al di fuori della norma, estendendo a 96 ore il fermo "preventivo", anche in assenza di flagranza di reato, e consentendo perquisizioni senza mandato. Forse, riflettendo su come sia facile pensare di far ricorso a misure eccezionali in Italia per una manifestazione rovinata da un gruppo di violenti, si può arrivare a capire il perché dell'adozione di misure di "prevenzione" un po' spicce verso gruppi potenzialmente capaci di riprendere a sparare e a combattere in una situazione di guerra ancora in corso (lo stesso articolo del Corriere riporta la notizia di scontri armati riesplosi a Tripoli ad opera di lealisti nascosti tra la popolazione, e pochi giorni prima Zuara era stata colpita da razzi che avevano fatto vittime: in un contesto così non stupisce che si operino arresti senza attendere l'ordine di un giudice). Ripeto: ogni abuso e violazione dei diritti è una vergogna, ma la radice di tutto questo è la guerra. Prima la guerra finisce e prima si potrà davvero pensare concretamente a ripristinare la normale convivenza civile.

Un'ultima considerazione riguarda il modo a dir poco inquietante con cui il Corriere ha trattato l'argomento. Oltre a sparare titoli cubitali, l'articolo contiene vere e proprie inesattezze.
  1. Per accreditare un clima di "pulizia etnica" viene detto che "quasi subito" dopo il 13 agosto, giorno della presa di Tawergha, Amnesty International "e altre organizzazioni per la difesa dei diritti umani" avrebbero "denunciato massacri, abusi di ogni tipo e soprattutto deportazioni di massa". Ora, se si va a vedere che cosa ha realmente segnalato Amnesty (in un comunicato del 7 settembre seguito da due rapporti del 13 settembre e 13 ottobre) imputandolo alle forze anti-Gheddafi, si osserva che si tratta perlopiù di casi di arresti arbitrari, percosse e maltrattamenti, e comunque mai di "deportazioni di massa". E i "massacri" consisterebbero nei linciaggi di diversi militari nei primi giorni dell'insurrezione e in qualche altra uccisione isolata di sostenitori di Gheddafi in circostanze poco chiare durante il conflitto, senza nessun riferimento a Tawergha (e l'unica foto di una di queste vittime ritrae un bianco).
  2. Per accreditare l'idea che perfino il capo dello stato ad interim condivida questa operazione, il Corriere scrive: "il 18 settembre un inviato del Wall Street Journal citava il presidente del Consiglio Nazionale Transitorio, Mustafa Abdel Jalil, che dava il suo placet alla totale distruzione della cittadina. 'Il fato di Tawargha è nelle mani della gente di Misurata', sosteneva Jalil, giustificando così appieno i crimini di guerra". Più espliciti di così! Ma se si va a guardare che cosa ha detto il quotidiano statunitense (in un articolo del 13 e non del 18 settembre) si osserva che il presidente del CNT Mustafa Abdel Jalil non c'entra per nulla (mi avrebbe stupito il contrario: in qualità di ex magistrato attento ai diritti umani quest'ultimo non cessa di ripetere quanto sia importante evitare vendette e affermare uno stato di diritto). La posizione riferita in quell'articolo è quella, espressa "a titolo personale" da Mahmoud Jibril, che "nessuno abbia il diritto di interferire in questa faccenda al di fuori della popolazione di Misurata". Dichiarazione un po' pilatesca, se vogliamo, che sembrerebbe peraltro limitarsi a non voler sottrarre alle autorità locali il compito di occuparsi della questione. Autorità locali la cui posizione è espressa, poco più avanti, nello stesso articolo e non sembrebbe improntata alla pulizia etnica: "Mohamed Darrat, capo del comitato media dei ribelli a Misurata, ha condannato il saccheggio di Tawergha e altri atti di vendetta su individui. Egli ha detto che il comando cittadino dei ribelli aveva ordinato ai suoi combattenti di non attaccare le proprietà dei sospetti lealisti del regime". Che il CNT sia in difficoltà a controllare le iniziative individuali delle sue milizie è un fatto, ma che "giustifichi appieno i crimini di guerra" è un'affermazione infondata.
Le affermazioni di questo articolo sono solo il punto di partenza. Il giorno dopo, sullo stesso Corriere Pierluigi Battista rincarava la dose, parlando, oltre che di "caccia al negro", anche di "esecuzioni sommarie dei 'lealisti'" e addirittura di "stragi dei detenuti", di "'sangue dei vinti' versato senza pietà" e via di questo passo. Di colpo, i crimini di cui si è reso riconosciutamente colpevole Gheddafi (in particolare, le stragi di detenuti sono una sua triste specialità) vengono attribuiti pari pari ai suoi opositori!

Sarà un caso? Può darsi che il paginone con titoli scandalistici ed errori a profusione sia saltato fuori solo per amore del sensazionale e si inserisca nel collaudato filone di inefficienza della stampa italiana, soprattutto nei resoconti dall'estero. Ma siccome a pensar male si fa peccato ma spesso si indovina, mi domando se tutto questo non faccia invece parte di un piano per indebolire la credibilità della dirigenza della nuova Libia, descritta come una semplice metamorfosi di un regime disumano, con lo scopo di preparare il terreno a ventilate "operazioni di peace-keeping", che in sostanza metterebbero la Libia sotto il protettorato occidentale col controllo di truppe straniere. Questa strana guerra in cui la NATO ha colpito dal cielo ma non ha potuto mettere piede e stabilire basi nel paese "alleato" non deve essere andata giù a tanti sostenitori di un neo-colonialismo. Che provano a far rientrare dalla finestra quello che è stato tenuto fuori dalla porta.

.

Nessun commento:

Posta un commento