domenica 25 novembre 2012

Intervista a Mossa Ag Attaher

Nel numero di novembre 2012 di Limes, dedicato in gran parte alla situazione del Mali e dell’Azawad, è presente, tra l’altro una mia intervista a Mossa Ag Attaher, portavoce del MNLA (Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad). È l’unica voce diretta di un protagonista degli eventi in mezzo a tanti commenti di “esperti” esterni. L’intervista era stata realizzata in margine all’incontro-dibattito I berberi del Sahara e la questione dell'Azawad tenuto a Milano alla Casa della Cultura il 15 giugno 2012. 

Da giugno a novembre diverse cose sono cambiate nell’Azawad, ma l’intervista conserva tutto il suo interesse perché aiuta a comprendere le origini del conflitto dell’Azawad e la posizione del MNLA. Quello che viene qui riprodotto è il testo integrale dell’intervista, che nella versione pubblicata, pur mantenendo tutti i contenuti più importanti, ha subito qualche taglio per motivi redazionali data la sua notevole lunghezza.


D. Chi è Mossa Ag Attaher ?
R. Io sono innanzitutto un tuareg, poi un azawadiano, e un maliano solo a seguito della decisione che la Francia ha preso di unire il mio popolo al Mali nel 1960. La mia famiglia appartiene agli Idenan, nel circondario di Bourem (regione di Gao). Mio padre, Attaher Ag Infa, che da autodidatta era giunto ad essere un funzionario di prima categoria, aveva capito l’importanza dell’istruzione e si era dato da fare per assicurarla a tutti i suoi dieci figli. Ma per un tuareg studiare non era e non è facile. Dopo le elementari nel villaggio dove mio padre prestava servizio, per le medie sono dovuto andare a Bourem, a 200 chilometri di distanza. Per il liceo ero stato mandato a Gao, ma erano gli anni in cui le milizie operavano massacri della popolazione tuareg, e mi è toccato trasferirmi a 1200 km da Gao, nella regione di Sikasso. L’università l’ho fatta a Bamako, la capitale, dove mi sono laureato in scienze socio-antropologiche. Terminati gli studi sono tornato nella mia regione, dandomi da fare per fornire ai ragazzi tuareg meno fortunati di me le condizioni di istruirsi senza abbandonare il loro paese. Ho così presentato un progetto, che ha avuto il sostegno di alcune ONG francesi, per scolarizzare i ragazzi tuareg senza obbligarli ad una separazione traumatica dai loro genitori. Nel 2008 la nostra era considerata una scuola modello nella regione di Bourem. Sulla sua scia ne abbiamo creato poi un’altra per i nomadi nel Gourma (riva sinistra del Niger). In seguito ho dato vita, sempre con partner francesi e belgi, a progetti di tipo sanitario per sopperire alla mancanza totale di infrastrutture nella regione. Per acquisire competenze adeguate nel settore ho preso un master in sanità pubblica all’Università Libera di Bruxelles grazie a una borsa della Coopération Technique Belge. E al termine sono rientrato nel Mali: ho visitato più volte l’Europa, a partire dal 2007, ma sempre per brevi periodi, per i due anni del master, per incontri con l’ONG che finanziava i miei progetti, e per il Salone del Turismo Solidale, un altro settore in cui ho avviato dei progetti. Tornato in patria, ho trovato una nuova realtà: tra i tuareg si diffondeva sempre più un’aspirazione al cambiamento, e io ho sentito il bisogno di impegnarmi, già nel 2010, in seno a quello che non era ancora l’MNLA bensì l’MNA, Movimento Nazionale dell’Azawad: un’organizzazione che riuniva essenzialmente i giovani studenti tuareg, con lo scopo di costituire l’ala politica di una rivendicazione tuareg che ci illudevamo di poter portare avanti senza impedimenti. Purtroppo, però, le cose non sono andate così: il primo congresso costitutivo del MNA a Timbuctù, nel novembre 2010, è stato vietato. Ci sono stati degli arresti, ed è in seguito a questa repressione che ha preso le mosse il MNLA...

D. E prima del 2010 non avevate avuto alcun contatto militante con le organizzazioni che già esistevano?
R. Io sono molto giovane, ma ho vissuto in prima persona tutti gli eventi importanti degli ultimi decenni. Nel 1990 avevo 8 anni e già capivo che stava succedendo qualcosa di importante. E nel  1992 sono stato diretto testimone delle rappresaglie. Ho perduto dei parenti, dei cugini fucilati dall’esercito maliano. A 7 km da Gao c’è il più grande villaggio dei Kel Essouk, una popolazione di origine marabuttica estremamente pacifica, ma le milizie filo-governative sono passate di lì e hanno proceduto, indisturbati dalle autorità, al massacro di tutto il villaggio. In quel periodo mia madre  era proprio lì per far visita ai santuari dei marabutti (i pii personaggi della tradizione). Ne uscì viva per miracolo, insieme a pochi altri, creduti morti e gravemente feriti. Questi avvenimenti mi hanno profondamente marcato e penso che se ho fatto tanti sacrifici per studiare lontano dai miei è perché, in fondo, fin da piccolo avevo capito l’importanza di ottenere una preparazione che mi permettesse di avere un ruolo in tutto questo, ma a modo mio, visto che non sono per nulla portato alle armi e alla violenza, il che spiega perché fino ad ora sia stato fuori da tutti i movimenti armati. Il mio impegno è stato nella società civile, nelle ONG e nelle associazioni, anche militanti: nel 2006 ho partecipato al forum di Kidal che ha consentito il rientro dei tuareg dell’ADC (Alliance démocratique du 23 mai pour le changement), che avevano attaccato la città di Kidal, nel 2007 ho partecipato ad una missione di deputati e notabili che ha incontrato, nelle montagne, combattenti come Ibrahim Ag Bahanga e Hassan Ag Fagaga: anche questo incontro ha contribuito alla mia presa di coscienza: ho scoperto uomini che, pur non avendo nulla, vivendo in condizioni disperate, si battevano con determinazione, animati dal desiderio di cambiare le cose. Potevano contare solo sulle loro armi, senza alcun aiuto esterno, combattevano e morivano in una guerra di cui nessuno fuori sentiva parlare. È stato allora che ho sentito come una missione quella di far conoscere fuori del campo di battaglia la parola dei tuareg e dei loro leader.

D. Passiamo allora a parlare dei fatti recenti, di ciò che è avvenuto a partire dall’avvio della rivolta armata per la liberazione dell’Azawad.
R. Per capire il senso degli eventi bisogna prima ricordare come si è arrivato a questo. Molti riducono il tutto a una ribellione dei tuareg partita nel gennaio 2012, con la rapida conquista, nel giro di tre mesi, delle tre regioni del nord: tutto facile, tutto rapido. Ma sarebbe una lettura erronea della realtà: noi siamo in guerra col Mali dal 1960. Già due anni prima, nel 1958, avevamo espresso il rifiuto di qualsiasi vita in comune col Mali: quell’anno tutti i nostri capi tradizionali indirizzarono al governo francese dell’epoca una lettera in cui si affermava che, se la Francia si apprestava a dichiarare l’indipendenza del Mali, noi non volevamo farne parte: per noi era preferibile o creare uno stato indipendente, o addirittura restare uniti alla Francia, che perlomeno aveva, nei nostri confronti, un comportamento improntato al rispetto della nostra identità, della nostra cultura, del nostro modo di vivere essenzialmente nomade, diverso da quello dei popoli sub-sahariani. La Francia ignorò questo appello, e il 22 settembre 1960 diede vita allo stato del Mali includendovi anche le regioni del nord, cioè l’Azawad. Fu l’inizio di una coesistenza difficile e dolorosa. Già nel 1963 vi fu la prima ribellione tuareg nell’Adrar degli Ifoghas, che venne schiacciata con la forza. E già allora il Mali si macchiò di violenze arbitrarie, con la pubblica esecuzione di uomini e ragazzi, e con la militarizzazione dell’Azawad, in particolare di Kidal, divenuta la regione militarizzata per eccellenza. Furono anni disperati per i Tuareg, perché oltre alla guerra infuriava una prolungata siccità che provocò l’esodo della gioventù tuareg verso la Libia. Nel 1990 scoppia la seconda rivolta, condotta soprattutto da quei giovani che erano stati in Libia dove erano stati accolti da campi di addestramento militare. Fu una ribellione più organizzata di quella del ’63, con obiettivi più chiari e mezzi militari più adeguati, e riuscì a cogliere diversi successi contro l’esercito maliano. Essa si concluse con la stipula di un “Patto Nazionale” che prevedeva, tra l’altro, la smilitarizzazione e la fine dell’isolamento delle regioni del nord, una politica di decentralizzazione con la creazione di autorità locali elettive, l’integrazione nell’amministrazione di diplomati tuareg, politiche sanitarie e di istruzione che tenessero conto delle realtà della popolazione.
Questo Patto Nazionale, però, non è mai stato messo in pratica. A parte l’integrazione di alcuni tuareg nelle forze armate, per il resto non si è visto nulla, né per quanto riguarda l’istruzione e la lotta contro l’analfabetismo, né per la salute, e la costruzione di ospedali e dispensari, né per quanto riguarda la fine dell’isolamento: tra il 1960 e il 1990 non è stata costruita una sola strada: per collegare Gao con Timbuctù e con Kidal non ci sono che piste di epoca coloniale: solo piste, nemmeno un chilometro di asfalto. Questo mancato rispetto del Patto Nazionale da parte dello stato maliano ha portato a un profondo scontento.
 
D. Ho però l’impressione che qualcosa di positivo ci sia stato. So che c’erano deputati tuareg al parlamento nazionale, anche se numericamente i tuareg sono minoritari rispetto al resto della popolazione...
R. In effetti, qualche effetto positivo è arrivato con la decentralizzazione. Tra le rivendicazioni della rivolta del 1990 c’era la richiesta di democrazia. Nel 1990 non c’era la democrazia nel Mali : era una dittatura militare, al potere da 23 anni, sotto il generale Moussa Traoré. Oggi pochi lo ricordano, ma fu la rivolta tuareg l’elemento principale per l’avvento della democrazia in tutto il Mali, non solo al Nord, con la caduta della dittatura, la decentralizzazione e il multipartitismo. Per la prima volta vi furono delle autorità elette localmente, dei sindaci tuareg. Ci sono anche dei deputati tuareg, eletti dal popolo e non più, come avveniva prima, uomini scelti dal potere per la loro accondiscendenza. Quanto alle stime sulla consistenza numerica dei tuareg, bisogna osservare che non c'è mai stato un serio censimento delle popolazioni nomadi. Nel 1960 la popolazione del Mali era di circa 3 milioni di persone, di cui 500.000 tuareg. Col censimento del 2004 la popolazione era salita a 14 milioni, ma i tuareg sarebbero sempre 500.000...
 
D. Preso atto di questi antefatti, come si è arrivati alla rivolta odierna?
R. Finiamo di ricapitolare: nel 1990 c’è la rivolta, il Patto Nazionale non rispettato, nel 1996 ci sono stati altri tentativi di rivolta, presto sopiti. Nel 2007 ci sono stati gli accordi di Algeri, a seguito di una nuova ribellione, ma ancora una volta i patti non sono stati rispettati, e così nel 2010 e 2011 abbiamo tirato le somme e, fatto un bilancio di tutte queste nostre rivendicazioni e rivolte, abbiamo  preso atto della dura realtà: il Mali dal 1963 al 2010 non ha mai voluto concedere nulla, non ha mai voluto considerare i tuareg come dei cittadini maliani.
  
D. Quando dice “abbiamo tirato le somme”, a chi si riferisce con questo “noi”?
R. Mi riferisco al MNA, un movimento essenzialmente di giovani, che avevano però dalla loro anche tutti i deputati e i sindaci tuareg, come potemmo constatare nel corso di diversi incontri, anche se molti, per il loro ruolo istituzionale, non potevano permettersi di esprimere apertamente la propria volontà di cambiare questo stato di cose.  Il MNLA, Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad è sorto poi con la fusione del MNA con i preesistenti Movimenti e Fronti Unificati dell’Azawad (MFUA), nonché con i ribelli del Movimento Tuareg Nord Mali di Ibrahim ag-Bahanga e con i sopravvissuti della rivolta del 1963, che sono anch’essi nel MNLA. In breve, il MNLA è davvero l’insieme delle forze vive dell’Azawad. Si tenga presente che ad esso aderisce anche buona parte della popolazione songhai e peul, oltre a una parte della popolazione araba. Per venire all’oggi, la guerra non l’abbiamo voluta noi. Abbiamo fatto di tutto per evitarla. Nel 2011 col MNA abbiamo cercato di incontrare il presidente della repubblica Amadou Toumani Touré: per tutta risposta ci hanno arrestato. E col rientro dei militari tuareg dalla Libia, che fa il presidente, invece di incontrarci e discutere con loro? Raduna un gruppo di suoi amici narcotrafficanti arabi di Timbuctù, li riempie di armi dell’esercito, organizza milizie in piena regola, manda convogli di centinaia di veicoli a militarizzare ancora di più Kidal, Gao e Timbuctù: una vera e propria dichiarazione di guerra. Il nostro è stato solo un atto di autodifesa. Se fossimo rimasti inerti avremmo perduto ogni nostra base. E così abbiamo lanciato il primo attacco, il 17 gennaio 2012, contro lo stato maliano nella cittadina di Ménaka. E in seguito la lotta è stata breve anche grazie ai decenni di esperienza accumulata dai nostri combattenti, in guerra dal 1963. Va anche ricordato che tutti i tuareg integrati nell’esercito del Mali col Patto Nazionale hanno disertato e si sono uniti al MNLA: essi conoscevano il sistema militare maliano e le sue strategie. Decisiva per il successo è stata però la risolutezza di tutta la popolazione dell’Azawad a combattere ad oltranza, consapevole che si trattava di vincere o perire.  Importante è stata anche la strategia adottata dal capo di stato maggiore, Mohamed Nadjem, un colonnello formatosi in Libia, dove era a capo della regione militare di Oubari. Oggi è il ministro della difesa del Consiglio Transitorio dello Stato dell’Azawad (CTEA).
  
D. In cosa consisteva questa strategia?
R. Una strategia che agli inizi non è stato facile fare accettare ai combattenti, perché considerava che l’obiettivo non era solo quello di liberare l’Azawad, ma anche di fare il minor numero di vittime, non solo tra i civili ma anche tra i militari, anche a costo di esporsi a maggiori rischi. La sua strategia consisteva soprattutto nel colpire a distanza, con armamenti piuttosto sofisticati, prendendo di mira obiettivi militari in cui non erano acquartierate truppe. Quindi non le caserme ma, per esempio, magazzini o installazioni militari. L’importante era di far capire all’avversario quale potenza di fuoco lo minacciava, anche da decine di chilometri di distanza. In un primo momento i militari maliani non avevano compreso questa strategia e cercavano di reagire: per questo all’inizio ci sono state vittime, in particolare a Aguelhok dove i maliani hanno perso centinaia di uomini. Poi però l’esercito del Mali ha capito ed ha preso a ritirarsi ogni volta che sentiva di essere a tiro di una potenza di fuoco superiore. E così, dopo i primi attacchi, ci sono stati solo prigionieri, e ben pochi morti da parte maliana. Così si spiega la rapidità degli eventi. Inoltre, a differenza delle rivolte precedenti, questa volta dopo avere liberato una città non ci ritiravamo ma restavamo a presidiarla e a batterci contro i rinforzi mandati per riprenderla. Così è stato a  Ménaka, a Tessalit, a Amachach, fino alla conquista di Kidal, Gao e Timbuctù. Un dato importante è che da gennaio ad aprile non c’è stata nemmeno una vittima civile tra la popolazione, anche quando abbiamo conquistato delle città con centinaia di migliaia di abitanti come Gao : abbiamo liberato le città senza fare morti.
  
D. Il 6 aprile è stata dichiarata l’indipendenza. Qual è stato il suo ruolo in quei giorni e come intende agire adesso?
R. Io era partito per la Mauritania alla fine di dicembre, incaricato dal movimento di installare a Nouakchott l’ufficio politico del MNLA, e sono arrivato a Parigi l’8 gennaio. Sapevo che il 17 sarebbe partito l’attacco ed avevo l’incarico di portare in Europa la voce del movimento ed il progetto politico del MNLA, farlo conoscere agli Stati ed agli organismi internazionali. Al contrario delle precedenti rivolte non dovevamo più combattere e morire nel silenzio internazionale, senza che nessuno ne venisse a conoscenza.  Ho bussato a tante porte, ho gridato, ho organizzato manifestazioni a Parigi, a Bruxelles, un po’ dovunque per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, i media, le organizzazioni.
   
D. E quali sono state le reazioni della comunità internazionale?
R. Il 2 aprile abbiamo proclamato unilateralmente la fine delle operazioni militari. Tre giorni prima la Francia, gli Stati Uniti e la CEDEAO (Comunità Economica Degli Stati dell’Africa Occidentale) avevano rivolto un appello al Mali ed al MNLA perché accettassero un cessate il fuoco. Noi siamo i soli ad averlo accolto e dal 2 aprile non c’è stato un solo attacco del MNLA contro il Mali, che invece, da parte sua, non lo ha ancora accettato. Dopodiché noi abbiamo mostrato la nostra buona volontà rispetto agli organismi internazionali accogliendo a braccia aperte le organizzazioni umanitarie come la Croce Rossa: abbiamo condotto il CICR nelle nostre basi per visitare ed assistere i prigionieri, abbiamo rilasciato, anche qui in modo unilaterale, alcuni prigionieri, affidandoli alla Croce Rossa.
Quando, il 6 aprile abbiamo proclamato l’indipendenza dell’Azawad, sapevamo che nessuno voleva la nostra indipendenza, ne era prova il modo in cui la Francia ci aveva consegnati al Mali come fossimo un oggetto di cui disporre a piacimento. Non ci aspettavamo che la comunità internazionale ci riconoscesse dall’oggi al domani, perché la nostra indipendenza rimetterebbe in discussione tutta la retorica che circonda il mito dei sacri confini. L’integrità territoriale è un elemento sacro per l’Occidente, pegno di fiducia e di stabilità. Anche se il sistema ha mostrato tutte le sue magagne, si continua a preferire ciò che è vecchio e collaudato alle incognite di un sistema che non si conosce.  A quanto sembra, la comunità internazionale si rende conto solo adesso di queste minacce, dimenticando le precedenti violazioni all’integrità territoriale del Sudan (la creazione del Sud-Sudan) o dell’Etiopia (indipendenza dell’Eritrea), per non parlare, in Europa, dell’esempio del Kosovo. Ma noi non ci arrendiamo: molto popoli in Europa ci appoggiano, e abbiamo riconoscimenti ufficiali da parte di molte comunità che, come noi, aspirano ad un riconoscimento, come i Corsi e i Bretoni in Francia o i Catalani in Spagna. Non parliamo poi delle comunità amazigh (berbere): abbiamo un sostegno straordinario da parte del popolo cabilo, che ha fatto sfilare migliaia di persone a Tizi-Ouzou (Algeria) con la bandiera dell’Azawad, ma anche dagli amazigh di Libia, Marocco, di ogni paese, in particolare dai tuareg del Niger con cui viviamo in una vera e propria simbiosi.
   
D. Il che non fa piacere al governo nigerino...
R. Ma è lo stato nigerino che non fa nulla per evitare i problemi, e al contrario versa olio sul fuoco, correndo di qua e di là per il mondo per invocare un intervento armato contro l’Azawad. Il giorno in cui ci fosse un intervento dell’Africa occidentale, contro l’Azawad, il Niger prenderebbe fuoco nel giro di 24 ore, e se ciò accadesse, sarebbero guai per la stessa Francia, visto che ciò interromperebbe il suo approvvigionamento di uranio, che si estrae nella regione tuareg del Niger. Questo lo sa la Francia, lo sa il Niger, ma non fanno nulla per creare le condizioni...
D. Che prospettive si aprono adesso? Ci sono tanti attori coinvolti, sarebbe interessante sapere come la vedono i vari paesi, in particolare la Francia e i paesi confinanti.
R. La Francia si è espressa fin da gennaio, per bocca del suo ministro degli esteri, e per la prima volta ha parlato del problema tuareg, per il quale ha auspicato una soluzione politica e non militare. È una svolta rispetto alla posizione francese tradizionale, che fingeva di ignorare il problema tuareg, perché per la prima volta la Francia si dice pronta a ricercarne una soluzione politica. Il ministro francese si è recato più volte a Bamako per spingere il Mali a intavolare negoziati con il MNLA, - una proposta respinta dallo stato maliano- e in seguito si è anche attivato nei confronti del MNLA per cercar di capire quale sia il suo progetto politico.  Nel frattempo in Francia vi è stato un cambiamento importante, alla presidenza non c’è più Sarkozy ed al suo posto vi è ora Hollande, che ha preso in mano da poco la situazione ed ha bisogno di tempo per deliberare una sua posizione sulla questione. Sappiamo che ha consigliato all’emissario della CEDEAO, il presidente del Bénin Yayi Boni, di rivolgersi al consiglio di sicurezza delle nazioni Unite, e questi ha pensato bene di richiedere un intervento militare sostenuto dall’ONU in collaborazione con le forze africane....
   
D. Richiesta che è stata respinta pochi giorni fa...
R. Sì, non è stata adottata. Comunque, contrariamente a quanto pensano i paesi africani, il MNLA e l’Azawad non hanno nulla contro il coinvolgimento dell’ONU, anzi noi auspichiamo che la CEDEAO e la comunità internazionale portino davanti al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il problema politico che ci contrappone al Mali fin dal 1960. E ben presto contiamo di domandare alle Nazioni Unite di mettere a disposizione dell’Azawad una commissione incaricata di seguire un referendum di autodeterminazione per il popolo dell’Azawad. Non abbiamo cominciato da qui perché abbiamo ritenuto importante, prima di tutto, liberare il nostro territorio e cominciare a gestirlo noi in prima persona. Di fatto noi abbiamo già richiesto l’autodeterminazione più di 50 anni fa, quando nel 1958 abbiamo avanzato quella richiesta alla Francia, prima della stessa indipendenza del Mali. Tale richiesta di indipendenza dell’Azawad era alla base anche delle rivolte del 1963 e del 1990. Non è da oggi che l’Azawad richiede l’autodeterminazione. E contrariamente a quanto si pensa, anche noi abbiamo a cuore la pace e auspichiamo un tavolo negoziale tra noi e il Mali, purché ci sia la volontà reale di trovare una soluzione definitiva al problema dell’Azawad e purché il Mali si doti rapidamente di istituzioni rappresentative democraticamente elette.  Già, perché al momento quelli che fanno il bello e il cattivo tempo a Bamako sono un pugno di giovani ufficiali, giunti al potere con un colpo di stato. Aggrediscono il presidente ad interim, imprigionano i politici, dissolvono la costituzione: è un’anarchia di stato. Noi vogliamo firmare accordi di buon vicinato e coabitazione pacifica con il Mali, ma per farlo occorre che vi sia instaurata un’autorità legittima riconosciuta dal popolo maliano e dalla comunità internazionale.
   
D. Riguardo alla CEDEAO, ho l’impressione che al suo interno non ci sia un’unità di intenti, e che gli stati che ne fanno parte abbiano posizioni diverse sulla questione.
R. In effetti, la CEDEAO ha di punto in bianco cercato di imbarcarsi in un’impresa mai tentata fino ad ora: intervenire militarmente in un territorio che le sue forze militari non conoscono affatto e contro la volontà di un intero popolo. Nessun paese africano vi è mai riuscito. La Francia ha fatto qualcosa del genere in Costa d’Avorio, e in diverse zone di conflitto, ma si tratta della Francia: ben difficilmente i paesi africani possono pensare di riportare gli stessi successi. Inoltre, i capi di Stato dei paesi della CEDEA non arrivano nemmeno a mettersi d’accordo sulla missione che si dovrebbe affidare a questa forza militare. Dovrà essere una forza che si imponga a Bamako per permettere al Mali di dotarsi di istituzioni democratiche, cacciando la giunta militare e organizzando elezioni? Oppure una forza di interposizione? Ma in questo caso sarebbe superflua, visto che non ci sono combattimenti in corso, i militari maliani si sono ritirati fino a Bamako e l’esercito del MNLA si è arrestato ai confini dell’Azawad. Se si pensa invece a una vera e propria guerra per cacciare il MNLA dall’Azawad, ci vorranno anni di addestramento e pratica del territorio prima che gli eserciti africani siano in grado di farla. Se per incoscienza o irresponsabilità i capi di stato della CEDEAO facessero scoppiare questa guerra, le conseguenze sarebbero disastrose: un dramma umanitario perché vi sarebbero migliaia di morti tra la popolazione civile, ma anche un dramma militare perché inviare truppe completamente inesperte di guerra del deserto vorrebbe dire mandarle al massacro. Quanto alle vittime civili, il nostro paese ha già un pesante bilancio che sfiora il genocidio: si calcola che dal 1960 ad oggi siano stati almeno 110.000 i tuareg uccisi, in combattimento o in massacri indiscriminati. 110.000!
   
D. Una vera guerra di sterminio. Capisco che il numero di tuareg sia così ridotto...
R. Comunque, le cifre che vengono fatte circolare sono fuori dalla realtà. Oggi noi siamo non meno di 4 milioni, e se ci fossero le condizioni per consentire un rientro dignitoso a tutti i tuareg che hanno cercato rifugio all’estero, saremmo almeno 5 milioni: c’è di che ribaltare gli equilibri con le altre regioni del sud. È questo che il Mali non vuole, e tutto quello che ha fatto -l’installazione di AQMI, la mancanza di sicurezza nella regione, la militarizzazione- è stato per impedire che i tuareg facessero ritorno a casa loro.
   
D. Se ho capito bene, dopo lo scoppio della guerra, nel sud c’è stata una vera “caccia al tuareg”...
R. Proprio così. Soltanto tra gennaio e oggi ci sono stati 300.000 rifugiati, tra Mauritania, Burkina Faso, Niger e Algeria, che vanno ad aggiungersi ad altre centinaia di migliaia profughi di precedenti guerre.
   
D. Per tornare alla posizione dei diversi paesi africani, mi sembra che solo alcuni siano favorevoli ad un’opzione militare...
R. Il solo favorevole a quest’opzione è il presidente del Benin, che ignora completamente i termini della questione: non conosce né il Mali né l’Azawad, e non ha una vera esperienza politica: prima di diventare presidente era un banchiere, che stava nelle grandi banche del mondo, la BAD, (Banque Africaine de Développement), il Fondo Saudita... Adesso sta per iniziare un secondo mandato, ma durante il primo non si è mai posto a capo di alcuna iniziativa africana, né di tipo pacifico né bellico. Accanto a lui c’è il presidente del Niger, che si illude di risolvere tutto inviando l’arsenale di guerra degli Stati Uniti e della Nato per sterminare i tuareg del Mali, così che i tuareg del Niger non possano avere chi li aiuta in caso di una rivolta.  Viceversa, il Burkina Faso è un paese che conosce bene i tuareg -vi abitano diversi gruppi di tuareg “neri”- e ne ha sempre accolto i profughi in occasione delle diverse ribellioni. Il presidente Blaise Compaoré si sta impegnando seriamente in una serie di iniziative. Una settimana fa ha accolto a Ouagadougou il MNLA per ascoltare quello che ha da dire e prendere nota delle sue proposte. E ieri ho saputo che ha anche invitato quelli di Ansar Dine per capire chi sono e cosa vogliono. All’interno della CEDEAO il Burkina è in una logica di leadership responsabile. Alcuni paesi poi sono assolutamente contrari ad un intervento militare, come l’Algeria, la Mauritania e la Nigeria (che rappresenta la maggiore forza militare dell’Africa Occidentale).
   
D. Come si spiega che l’Algeria sia così contraria ad un intervento militare? Com’è esattamente la posizione dell’Algeria?
R. L’Algeria è contraria ad un intervento militare perché vuole mantenere il suo ruolo di leader nella gestione della geopolitica della subregione, in particolare per quanto riguarda i tuareg. L’Algeria subisce al proprio interno le ripercussioni di quello che avviene nel Sahel, in particolare nell’Azawad. E poi non va dimenticato che ha pur sempre svolto un importante ruolo di mediatore nei diversi conflitti e non intende perderlo.
   
D. Ho però sentito parlare di un ruolo dell’Algeria e dei suoi servizi segreti, nella questione di AQMI (Al Qaeda nel Maghreb Islamico) e degli islamisti...
R. Su questo non me la sento di esprimermi. Noi, in quanto MNLA abbiamo detto, fin da gennaio, che ci aspettiamo la più stretta neutralità dei paesi vicini, Niger, Mauritania, Algeria e Burkina Faso. Osiamo sperare che la osservino davvero. La questione di AQMI è diversa. Sappiamo che esso non è un movimento dell’Azawad o dei tuareg. È un movimento nato in Algeria sulla scia del GSPC ed è composto in maggioranza di algerini. Dunque è un gruppo che non desideriamo vedere sul nostro territorio e pensiamo che l’Algeria, con la sua conoscenza di Aqmi e delle circostanze che hanno condotto alla sua nascita, abbia un ruolo importante nella lotta contro questo, che è un problema sorto in territorio algerino e poi “emigrato” nel territorio dell’Azawad. Quanto al fatto che sarebbe stata l’Algeria a farlo nascere, si tratta di voci e non me la sento di parlare di storie che non conosco.
   
D. Ad ogni modo, la questione che più preoccupa gli europei in questo momento è proprio quella dei rapporti con l’estremismo islamico. Nell’Azawad non c’è solo AQMI, c’è anche Ansar Dine. Cosa può dire in proposito?
R. Bisogna tener presente che AQMI è presente sul territorio dell’Azawad già da dieci anni, dapprima grazie all’atteggiamento passivo del Mali, ma poi anche con la complicità dello stato maliano, che ha intrecciato una rete di rapporti con AQMI. È soprattutto il gruppo ristretto degli amici del presidente della repubblica testé destituito che aveva stretti legami con esponenti della comunità araba di Timbuctù, sostanzialmente i capi del narcotraffico. È questo intreccio tra AQMI, narcotraffico, comunità araba e stato maliano che ha permesso il radicamento in Mali dei gruppi terroristi. Da una scissione all’interno di AQMI è poi nato il MUJAO, Movimento Unitaristi per il Jihad nell’Africa Occidentale, costituito essenzialmente da boss del narcotraffico arabi di Gao e di Timbuctù. C’è poi Ansar Dine, che non è una branca di AQMI, bensì un movimento islamista tuareg diretto da Iyad Ag Ghali, che peraltro era stato un leader della rivolta tuareg del 1990. Ansar Dine ha cominciato a far parlare di sé nel marzo 2012. Il suo obiettivo era l’instaurazione della sharia, la “legge islamica” su tutto il territorio del Mali, non solo nell’Azawad. Questo già di per sé mostra la totale divergenza dai nostri obiettivi: noi puntiamo a liberare il territorio e proclamare uno stato indipendente per dare una speranza al popolo dell’Azawad. La religione non è mai stata un nostro obiettivo. Siamo già per la maggior parte musulmani e non sentiamo il bisogno di batterci per diventare musulmani. L’islam che noi pratichiamo ha rispetto per le persone, i valori, la cultura, e non vogliamo unirci a gruppi che vogliono imporre una religione con la forza e con le armi. Oggi la democrazia e la libertà sono elementi importanti per tutti i popoli. Per questo il MNLA si tiene alla larga da questi gruppi. Non faremo mai della sharia un principio di organizzazione politica. Il MNLA intende rispettare le diversità etniche e religiose dell’Azawad, e se nel suo seno ci sono persone che la pensano come gli islamisti, ci impegneremo a fare chiarezza sul problema e a tirarne le conseguenze. [In effetti, nei giorni successivi è stato diffuso un testo di un accordo con Ansar Dine, subito sconfessato dalla maggioranza del MNLA, per la creazione di una “repubblica islamica”.  Un conclave del MNLA a Ouagadougou dal 23 al 25 luglio ha affrontato esplicitamente questo problema e ingiunto ai suoi membri compromessi con Ansar Dine di prendere definitivamente le distanze da questa organizzazione. V.B.]. Comunque sia, ritengo che da gennaio a oggi il MNLA abbia preso le distanze in modo abbastanza netto da questi gruppi. Combattiamo militarmente AQMI fin dal 2006, quando il numero 2 di AQMI è  morto in uno scontro con i ribelli di Ibrahim Ag Bahanga.
   
D. Una volta chiarita questa netta divergenza dagli obiettivi degli islamisti, come sono adesso i rapporti di forza con loro?
R. Contrariamente a come i media dipingono qui la situazione, noi abbiamo la supremazia sul piano militare. Gli islamisti però prevalgono dal punto di vista finanziario, perché hanno finanziatori occulti che portano loro milioni di dollari. Non si sa esattamente da chi provengano, ma ci sono  dei dubbi riguardo a certi paesi... Invece il MNLA non è finanziato da nessuno. E coi soldi quelli là possono riuscire a corrompere i giovani dell’Azawad, possono largheggiare con sussidi umanitari per attirarsi le simpatie della popolazione: questo è un pericolo reale. Ma dal punto di vista militare non c’è partita: noi abbiamo oggi più di 8000 combattenti, mentre AQMI, MUJAO e tutti gli altri messi insieme non superano i 600 combattenti.
    
D. Un’ultima domanda: come vede l’Azawad indipendente? Su quali risorse potrà contare?
R. Noi avevamo già delle ricchezze, ma è lo stato del Mali che ci ha impoveriti. Prima del suo avvento avevamo un’organizzazione politica ed economica in cui tutti, uomini e donne, avevano di che vivere dignitosamente. Avevamo una fiorente economia pastorale, ma anche agricola, senza contare i commerci trans-sahariani, ma il Mali ha bloccato tutto. Da un giorno all’altro ha dichiarato illegali le carovane trans-sahariane, e quanto all’allevamento non ha svolto alcuna politica mirata a promuoverlo e valorizzarlo, nonostante le immense potenzialità di questa risorsa. Abbiamo milioni di capi di bestiame, tra cammelli, bovini, ovini e caprini, che potrebbero apportare grande ricchezza attraverso la commercializzazione e la valorizzazione dell’allevamento. Per dare un’idea, siamo noi che riforniamo di carne la maggior parte del sud dell’Algeria. Da sempre colonne di camion carichi di bestiame di ogni tipo lasciano l’Azawad dirette in Algeria. Ma come vanno ora le cose? Senza una politica di sostegno dei prezzi, l’allevatore si lascia sfruttare: il commerciante arabo compra le pecore al prezzo locale e poi le rivende ad un prezzo dieci volte superiore a Tamanrasset o a Bordj Moktar o ad Adrar. Per esempio, una pecora comprata a Gao a 35 mila franchi CFA (50 euro) viene rivenduta a 500 euro in Algeria. Ma l’allevatore, lasciato a sé stesso, non lo sa: a lui bastano 50 euro per comprare il sacco di miglio, un po’ di tè, dello zucchero per la sua famiglia... Quanto all’agricoltura, basti pensare che Gao e Timbuctù sono attraversati dal fiume Niger. È una ricchezza immensa se si valorizzasse la coltivazione del riso. Già ora, anche senza alcun intervento da parte dello stato maliano, il riso permette l’autosufficienza alimentare delle regioni di Gao e Timbuctù per tre mesi all’anno. Con una buona politica agricola che permettesse, ad esempio, di dotare gli agricoltori di pompe a motore per irrigare i campi e di mezzi moderni, si potrebbe senz’altro passare almeno a sei mesi di autosufficienza alimentare. Per il resto dell’economia ricordo che la direzione regionale delle dogane di Gao è una di quelle che più contribuiscono al bilancio del ministero delle finanze per via delle merci che vengono dal Niger, dalla Mauritania, dalla Nigeria. Ma questi soldi vengono incamerati direttamente dal ministero e non resta nulla sul territorio. Un’altra risorsa potenzialmente proficua è quella del turismo. È incredibile il contributo che esso può apportare. Lo so per esperienza diretta: il 50% del mio progetto di scolarizzazione dei bambini del Gurma si è finanziato solo coi proventi di viaggi organizzati alla buona per amici e conoscenti che venivano a visitare i paese. Abbiamo anche il petrolio. Prima o poi bisognerà parlarne: i giacimenti di Taoudenni stanno per essere classificati tra i più grandi al mondo, sia per il petrolio che per il gas. E abbiamo dell’uranio nella regione di Kidal.  Ma parlarne adesso è prematuro: prima è indispensabile stabilizzare la regione. Sappiamo che i paesi europei sono interessati a ciò che possono trovare da noi: petrolio, uranio, investimenti, partecipazioni in imprese. Ma devono rendersi conto che è nel loro interesse darci una mano a stabilizzare la regione, combattere il narcotraffico, sbarazzarci dei terroristi. Solo allora potremo stringere accordi di partenariato che siano rispettosi delle popolazioni locali, per non ripetere ciò che avviene ad Arlit (nel Niger) dove il colosso Areva sta mettendo a repentaglio, indirettamente, la vita di migliaia di tuareg, con le radiazioni che rendono impraticabili i terreni di pascolo. Una volta in pace e indipendenti, con le nostre nuove istituzioni e la stabilità nel paese, il governo dell’Azawad sarà pronto a discutere con voi da pari a pari.

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